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Riapre dopo decenni l’Antiquarium di Pompei

di Renate Mussini
4 Gen, 2022
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Ciò che più colpisce aggirandosi per le nuove sale dell’Antiquarium di Pompei, aperte lunedì scorso al pubblico dopo l’ultimo restyling, è la prossimità. Il confine tra gli oggetti esposti e i visitatori è ridotto, talvolta impercettibile. E non c’entra l’ambiente ristretto. Ad accorciare le distanze sono le nuovissime vetrine (ma ne è rimasta anche qualcuna degli anni Cinquanta, restaurata): se nel 1926 l’allora soprintendente Amedeo Maiuri aveva protetto tutto all’interno di armadi, le vetrine attuali sfondano gli spazi per dar vita a un percorso di suggestioni emotive.

Ogni teca trasparente è una finestra su un mondo da esplorare, mentre gli appoggi minimali in metallo sostengono busti o capitelli senza invadenze. C’è quasi un’osmosi temporale tra chi guarda e chi si mostra, in seno a quella illuminante etimologia che fa risalire il verbo vedere alla radice greca del verbo sapere, conoscere. Tra le volte in cemento e i mattoni romani a vista, tra la pietra lavica del pavimento e quella su cui poggiano le testimonianze in mostra, quasi ascendessero dallo scav, le undici sale distribuite su 600 metri quadrati ricostruiscono lo spaccato dei vari periodi storici di Pompei, dall’età sannitica (IV secolo a.C.) fino alla tragica eruzione del 79 d.C., concentrandosi sul rapporto nodale con Roma.

Storia dell’Antiquarium di Pompei

Lunedì scorso, dunque, l’ennesimo battesimo nella travagliata storia dell’Antiquarium. La conferenza stampa di presentazione e l’apertura ufficiale sono state affidate, nell’Auditorium coperto e sotto i pini sferzati dal vento, a un breve discorso di Massimo Osanna, direttore generale dei Musei del Mibact e, ad interim, del Parco archeologico di Pompei, nonché ai saluti del generale dell’arma dei Carabinieri Mauro Cipolletta, attuale direttore del Grande Progetto Pompei, e del sindaco di Pompei Carmine Lo Sapio. Quest’ultimo ha persino annunciato che presto conferirà la cittadinanza onoraria a Osanna e al Ministro della cultura e del turismo Dario Franceschini. Niente abbracci, niente baci, come da disposizioni sanitarie anticontagio. Inizia subito la visita dell’Antiquarium, simbolo di resistenza alla caducità umana.

Durante il periodo borbonico, molti degli oggetti in ceramica, in terracotta, in marmo, ferro o bronzo che, una volta portati alla luce negli scavi di Pompei, venivano giudicati poco importanti e quindi non adatti a essere trasferiti al Museo archeologico di Napoli, venivano raccolti all’interno del tempio di Vespasiano. Ammassati ed esposti alle intemperie, non erano visibili né al pubblico né agli studiosi.

Fino al 1861 quando il lungimirante Giuseppe Fiorelli, che non era ancora direttore ma solo ispettore degli scavi, propose di realizzare un museo proprio a Pompei che, attraverso una selezione delle suppellettili più comuni, offrisse ai visitatori un’immagine genuina della vita quotidiana nella città antica. Non se ne fece nulla “perché mancano i mezzi”, gli fu detto, cioè per mancanza di soldi o forse di terreni adatti alla costruzione dell’edificio. Allora Fiorelli si accontentò di una sorta di magazzino, una galleria a volta lunga e stretta, accessibile da sotto il fornice di Porta Marina. Lì cominciò a conservare, non si sa bene a partire da quando, ma probabilmente già dal 1863, i calchi di strutture lignee, di porte e finestre, di un cane alla catena e di nove pompeiani, insieme a un campionario di oggetti in bronzo, vetro e terracotta, statuette, marmi, avanzi di corde e vesti di lana.

Bisognerà aspettare però il 1926 perché Amedeo Maiuri intervenga con cambiamenti significativi come la sostituzione delle vecchie scaffalature con moderne vetrine, e l’esposizione della suppellettile venuta alla luce nei nuovi scavi di via dell’Abbondanza. Nel 1930 un’intera sala, la quarta, fu dedicata ai reperti della famosa villa della Pisanella a Boscoreale, a eccezione del tesoro di argenteria già venduto all’estero e oggi esposto al Louvre di Parigi.

Nel 1943, l’ennesima sventura: i bombardamenti alleati del 24 agosto e del 20 settembre distrussero l’edificio e 1378 manufatti. Le maggiori perdite riguardarono gli oggetti conservati nelle ultime due sale, compresi i reperti di Boscoreale. Il progetto di conservazione della ‘memoria in situ’ pareva svanire. Un primo restauro cancellò solo in parte l’offesa della guerra, ma Maiuri non si dette per vinto: sistemò nuovamente la raccolta in un edificio totalmente rinnovato che chiamò Antiquarium, e che aprì al pubblico nel 1948, in occasione del bicentenario degli scavi.

Nel progetto tecnico di restauro, datato 1945, si volle ricordare l’importante funzione dell’Antiquarium come “prima visione della città antica per il visitatore. Mentre infatti nel Museo Nazionale di Napoli, le ricche raccolte di Pompei e di Ercolano sono esposte secondo un criterio più strettamente artistico, nel Museo di Pompei (si riferisce a quello distrutto, ndr) la scelta e l’ordinamento del materiale erano informati al criterio di offrire una visione chiara, semplice ed organica delle suppellettili della casa antica, dall’umile vaso di terracotta al bel vaso in bronzo decorato e figurato, dai colori alla pittura d’arte, dalle bilance e stadere ai modelli d’una villa o d’una fattoria di campagna. Preziosi e commoventi documenti dell’umanità di Pompei e del suo tragico seppellimento, i calchi delle vittime dell’eruzione vesuviana esposti nelle vetrine centrali del Museo”.

Dunque gli oggetti antichi, non allontanati dal loro contesto di scavo, restituivano un’istantanea verosimile del passato. E hanno continuato a farlo nell’Antiquarium dal 1948 fino al 1980, quando il terremoto costrinse a una nuova chiusura. È stato riaperto solo dopo 36 anni, nel 2016, per ospitare esposizioni temporanee. E solo da lunedì scorso ha finalmente riacquistato il suo ruolo, grazie al nuovo allestimento degli architetti Roberto Cremascoli di COR arquitectos e Flavia Chiavaroli.


Antiquarium di Pompei, sala interna. Foto di Claudia Procentese

Il nuovo percorso espositivo tra novità e assenze

La suddivisione in sezioni, esplicate dal chiaro apparato didattico curato da Fabrizio Pesando e Luana Toniolo, parte al piano terra del palazzetto ottocentesco con Summa pompeiana, una sorta di introduzione alla visita. E poi ci si immerge, letteralmente, nella vita quotidiana di Pompei. Le sezioni in cui l’esposizione è suddivisa, parlano da sé: Prima di Roma (Il secolo oscuro, La fase dell’alleanza con Roma, Il secolo d’oro di Pompei, Mercatores, Privata luxuria), Roma vs Pompei (Obsidio), Pompeis difficile est (Colonia Cornelia), Tota Italia (Pompei augustea), Hic habitat felicitas (Vivere nel lusso), A fundamentis reficere (Structores et pictores), L’ultimo giorno.

Ed ecco gli oggetti in mostra. La parete con architetture prospettiche, il corredo funerario a vernice nera del IV secolo a.C., le coppe di terracotta a rilievo provenienti dalla Turchia, l’ancora del I secolo d.C., l’affresco di Venere su una quadriga trainata da elefanti, i proiettili di catapulta dell’assedio, il ritratto di Marcello, il segnacolo funerario a sfinge riutilizzato come paracarro da Boscoreale, l’iscrizione elettorale, il servizio da tavola in argento dal Complesso dei triclini di Moregine, lo scaldavivande in bronzo con ageminature in argento dalla Casa dei quattro stili, l’efebo portalucerna dalla Casa di Marco Fabio Rufo, il letto triclinare dalla Casa del Menandro, il tesoro di amuleti dalla Casa con giardino nelle Regio V, il rilevo in marmo che ritrae gli effetti del terremoto del 62 d.C. nel Foro, le coppette contenenti i pigmenti impiegati per le decorazioni parietali, la Nike da Oplonti, il fanciullo con oca da cui usciva un getto d’acqua e che decorava il giardino della Casa dei Vettii, i flauti in bronzo e avorio, il tronco di cipresso carbonizzato rinvenuto lungo l’antico corso del fiume Sarno, a sud di Pompei.

E poi ci sono loro, i calchi, protagonisti di ieri e di oggi. Quello del bambino dalla Casa del bracciale d’oro, e quello del cavallo trovato di recente nella villa di Civita Giuliana. Un pannello, in forma di affettuosa epistola, avvisa i visitatori: “Caro visitatore, vogliamo che tu sia consapevole che all’interno del percorso espositivo si trovano alcuni dei famosi calchi. Si tratta degli antichi pompeiani, morti lo stesso giorno in cui la furia del Vesuvio seppelliva la città consegnandola alla storia. I corpi dei suoi abitanti sono stati restituiti al mondo tramite la tecnica inventata da Giuseppe Fiorelli, che consiste nel versare gesso liquido nelle cavità lasciate dal materiale organico ormai svanito. Ciò ha permesso di conservare dettagli come abiti e volti, ma anche di cristallizzare per sempre i loro ultimi istanti. Ti consigliamo, quindi, se pensi che per la tua sensibilità personale la vista di tali unici reperti sia troppo impegnativa, di non proseguire nella visita dell’Antiquarium ma di godere della bellezza della città. Se desideri proseguire, ricordati che si tratta dei resti di creature viventi, che come tali esigono rispetto”. I calchi sono materiali sensibili. Non sono un memento mori quanto tracce pulsanti di vita.


Antiquarium di Pompei, Timeline. Foto di Claudia Procentese

Il futuro del ‘museo pompeiano’

A guardare le vecchie foto dell’Antiquarium di inizio Novecento, si nota come ora non esistono più i corridoi appesantiti dagli armadi da catalogazione, addossati alle pareti, e sono anche scomparse, al centro, le urne di vetro impilate che custodivano i calchi. Oggi l’Antiquarium (a cui si accede, ricordiamolo, con lo stesso biglietto di ingresso agli scavi) è la prima parte di un ‘museo diffuso’ che, ha annunciato Osanna, continuerà con l’apertura entro l’anno dei Granai del Foro, il più importante magazzino archeologico di Pompei che ospita più di novemila reperti dagli scavi della città e del suo territorio.

Si tratta dunque di un work in progress che dovrà necessariamente colmare alcuni problemi e lacune dell’attuale Antiquarium. Muovendosi in spazi stretti, infatti, un visitatore potrebbe appoggiarsi involontariamente a un affresco senza protezione, o urtare con lo zainetto un busto en plein air. Inoltre l’utile timeline, che illustra le date salienti della storia della Pompei antica e dell’Antiquarium moderno, è posta sulla parete del piano ammezzato ed è perciò di scomoda lettura. E non potrà mai sostituire la cara vecchia mappa con ‘voi siete qui’.

Al momento, a indicare la geografia del luogo c’è solo la lastra in travertino della Forma urbis pompeiorum,  aggiornata, come indicato, al 1976, posta all’esterno dell’Antiquarium, sulla parete di fondo del ‘larario’ dei pompeianisti (con i busti di Fiorelli, Ruggiero, Mau, Maiuri, Della Corte). Basterà a colmare tale lacuna Amedeo bot, l’assistente digitale che fornisce informazioni sul proprio dispositivo mobile puntando il QR code su ogni pannello, in un luogo dove, però, la connessione a internet non è sempre stabile?

C’è il rischio, reale, che il piccolo museo pompeiano rimanga un luogo per pochi: gli spazi sono angusti e gli ingressi saranno probabilmente contingentati anche quando spariranno le attuali normative sanitarie. Pare quasi un’amara risposta al tanto evocato rischio, prima dell’epidemia, oramai, di una Pompei ostaggio dell’industria turistica. Rischio contro rischio, dunque, in quell’eterno movimento che fa di Pompei una città sempre viva.

Perché Pompei attrae. Da sempre. C’è chi elogia e chi recrimina, chi costruisce e chi smantella. Ma gli uomini passano, e lei resta. Lunedì all’affollata conferenza stampa, ultimo atto della direzione di Osanna, c’era un parterre d’eccezione: il procuratore capo della Repubblica di Torre Annunziata Nunzio Fragliasso, il direttore del Museo di Capodimonte Sylvain Bellenger, e Francesco Sirano e Gabriel Zuchtriegel, direttori rispettivamente del parco archeologico di Ercolano e di Paestum, e tra i dieci candidati alla prossima direzione di Pompei. Ma a pochi passi la Pompei antica sonnecchiava, silenziosa, tra case e strade semideserte, nonostante la riapertura. Amedeo Maiuri ha scritto: “Per questo Pompei è la città meglio compresa e più amata di tutto il mondo antico: non è solo il campo ancora inesausto di dotte ricerche e d’indagini dello studioso e dell’archeologo, ma è anche il patrimonio comune della nostra civiltà”. È il paradigma del nostro sentire.

Articolo tratto da Archeostorie Magazine. su licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.